
Tutto è iniziato con un risveglio convulso, dovuto a qualcosa di appuntito e fastidioso che mi pungeva nei pressi del sedere. Dopo aver ispezionato la zona con cautela, avendo appurato l'assenza di mosquitos o oggetti acuminati, mi ero raccapezzato. Trattavasi di un attacco insopprimibile di sensodicolpite. Il giorno prima avevo perso tutto il pomeriggio attendendo, in un ufficio kafkiano, che Joris rinnovasse il visto (cosa che tra l'altro non gli era riuscita). Era venerdì 13 e me lo dovevo sostanzialmente aspettare, ma sono un ottimista e speravo come sempre che la sfiga colpisse quello dopo di me. Com'è come non è, ero scomparso dall'ufficio a mezzogiorno ed un quarto biascicando "vado a mangiare qualcosa" ed ero tornato alle 4, pezzato in zona ascellare e con l'ufficio pressochè deserto perchè -si sa- venerdì pomeriggio il virus (contagiosissimo) della fancazzite colpisce un po' tutti. Venerdì sera avevo quindi preso una sofferta ma doverosa decisione: vado in ufficio anche domattina, nel trepidante sabato della finale di rugby. Avevo puntato la sveglia alle 7 come al solito ma mi ero svegliato un po' prima, ansioso di dimostrare un prodigioso attaccamento al lavoro (oppure semplicemente punto nel culo dalla sensodicolpite). Colazione flash ed ero per la strada. Le bandiere non si contavano e tutto mi faceva girare le palle. La gente che urlava. La brezza che brezzava. I bambini che correvano. Il vento che muoveva foglie disegnando traiettorie fastidiosamente irregolari. Il sole che scintillava. I braai alle otto meno dieci di mattina sui marciapiedi. Il campus deserto. E soprattutto... l'ufficio chiuso serrato. Un evento imprevisto significa nuove opportunità. Sedato il mio senso di colpa e compreso quanto insignificante fosse quell'inconveniente nell'ottica di una concezione eliocentrica dell'universo, dopo una rapida capatina nel computer lab ho deviato verso il Waterfront, direzione stadio. Perlomeno scatto qualche foto, ho pensato, così la regalo al Van. L'atmosfera in giro era incredibile, molto mitteleuropea (questa.è.per.saldare.una.promessa-cit.). Ognuno era già truccato di arancione o di blu, ogni macchina esponeva una o più bandiere e la città, ed i semafori, e le finestre, ed i lampioni erano completamente addobbati. Ogni tre secondi pensavo che sfiga non aver trovato i biglietti. Ma le buone notizie diventano ottime quando sono inaspettate. Mentre bevevo una coca in un bar guardando le figure di un quotidiano in Afrikaans, il telefono ha trillato. Hello Mattìo. Il Van, col suo vocione, mi portava la buona novella: aveva trovato due biglietti. Avvisato Joris dell'avvenuto prodigio mi sono diretto verso casa del Van, ansioso di mettere le mani sui preziosi tagliandi. Ad attendermi c'erano nipoti, gatti, figli e gente matta, intenta ad effettuare il warmup della partita. Protagonista indiscusso: il whiskey. Dopo aver mangiato qualcosa e parlato con gli ospiti di rugby italiano (più che parlando sarebbe corretto dire "pagliacciando", visto la mia turbata incompetenza in materia) è scattata l'operazione maglietta e cappellino. L'abbigliamento conta -e deve saper contare almeno fino a dieci (cit.)- e siccome non potevo affermare il mio amore viscerale per i Cheetahs attraverso cori ingiuriosi verso la tifoseria avversaria mi volevo se non altro mimetizzare cromaticamente tra i real supporters. Così fu. Dopo aver trattato sul prezzo come neanche Sandro quando si comprò i bonghi in montagnola in quinta liceo, ed aver pagato -comunque- l'equivalente di uno stipendio medio-alto di un operaio specializzato nella regione del Limpopo, ho indossato una splendida polo arancio ed un cheetah cap (ma non quello con le orecchie da cheetah perchè mi vergognavo). Rintracciato il mio posto (non nel mondo, in curva) con tanta fatica, mi sono seduto e guardato intorno. Joris è arrivato dopo qualche minuto, la notizia l'aveva colto impreparato, probabilmente immerso in piscina, o al cesso.
Saltiamo la descrizione della partita, sappiate solo che è stata estremamente spettacolare e vissuta da tutto lo stadio col respiro sincronizzato. Fine tempi regolamentari: parità. Fine tempi supplementari: parità. "Ora che succede?" ho chiesto spaesato ai miei vicini di posto. "Niente, dividono la coppa", mi sono sentito rispondere. Un sorriso e ho visto la mia fine sul tuo viso (cit.), amico boero. Un senso di morte mi ha attanagliato, quella sensazione che ti prende quando una tua certezza si sgretola e fa *crak crok* per terra. Tutti hanno incominciato a muoversi per andarsene. Non era un bluff. Ora potrei parlarvi per ore della mia concezione di sport, la gioia del vincitore, il saper ricominciare, l'esaltazione, le lacrime dello sconfitto, il dolore, la casualità, l'attenzione, la vita. Se è vero, come dice qualcuno, che lo sport è una sublimazione "pulita" della guerra, allora ci sta che non vinca nessuno. Dopo aver guardato Joris incredulo mi sono alzato ed ho sceso qualche gradino. Un vecchio supporter dei Blue Bulls, completamente di blu bardato (e pure biancabarBato), mi ha fermato e mi ha teso la mano. Mentre me la stringeva con forza mi ha sorriso ed i suoi occhi azzurri erano felici. Lì ho capito che (forse) si può vincere tutti, anche nello sport, ma è necessario concepirlo come una festa e non con quel senso di rivalsa che spesso contraddistingue il tifoso medio ("io sono meglio di te"). Fuori dallo stadio tutti stavano insieme, bevendo e mangiando, celebrando i vincitori. In fondo nessuno aveva perso. Storditi per il sole preso in testa tutto il pomeriggio, io e Joris abbiamo camminato a piccoli passi verso casa del Van. La gente si era moltiplicata ed in cortile c'erano trenta persone di cui non ricordo il nome ma le facce quelle si. Erano le 7.30 e stava facendo buio. "Andiamo in un pub fuori Bloem" mi fa uno. "Venite con noi" ci fa un altro. Un caffè ed ero come nuovo.
Siamo saltati dentro il cassone di un pick-up (finalmente ho fatto anche questa esperienza) con altri 3 e abbiamo cominciato a prendere una smodata quantità di aria sul muso. Sfrecciare nel buio profondo di strade senza lampioni con la faccia cotta dal sole, qualche parola scambiata, vibrazioni a nastro e vento in ogni dove non era poi male. SULEMANI! (cit.) che si va. La serata ha regalato innumerevoli perle. Il posto era magnifico. La mia tipica risposta alla tipica domanda "cosa ne pensi del Sud Africa?" è stata utilizzata parecchie volte, sempre nel segno della political correctness, ma da qualcosa si deve pur cominciare. Fa niente se il caffè che ho bevuto insieme ad una birra era il "peggiore caffè umanamente concepibile", e lo diceva pure Ega. Chissenefrega se era di plastica, mi ricorderò di quel posto anche per quello. Dopo qualche ora, con un mal di testa importante ed una giornata intensa pronta per essere archiviata nel mio archivio cerebrale, siamo tornati a casa. E lì, potete scommetterci, ho dormito per tanto tanto tempo.
A presto, presto.